29 Dic Vestire è un atto politico
E poiché un romanzo ha questa corrispondenza con la vita reale, i suoi valori sono, fino a un certo punto, quelli della vita reale. Ma è ovvio che i valori delle donne sono spesso diversi dai valori costruiti dall’altro sesso; questo è naturale. Eppure sono i valori maschili a prevalere. Parlando grossolanamente, il calcio e lo sport sono “importanti”; il culto della moda, l’acquisto di vestiti, “futili”. [Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé]
In una Stanza tutta per sé, Virginia Woolf sottolinea come i valori di una società siano costruiti attraverso una modalità gerarchica che rispecchia quella dei sessi. Per questo motivo il calcio, sport storicamente declinato al maschile, è così importante e l’acquisto di vestiti è un’attività ritenuta futile poiché collegata al femminile. Eppure in questo mio intervento cercherò di raccontare come la lotta per l’autodeterminazione femminile sia passata, e passi ancora oggi, anche dal vestiario. Per molti secoli infatti le donne hanno dovuto lottare anche per indossare un semplice paio di pantaloni. Perché? Non potevano indossare un capo considerato maschile in una società che aveva teorizzato la separazione delle sfere tra pubblico (maschile) e privato (femminile) e la complementarietà funzionale tra i due sessi.
I rivoluzionari giacobini, infatti, una volta preso il potere in Francia promulgano, sulla scorta delle teorizzazioni illuministiche, una legge che vieta alle donne di indossare i pantaloni e contestualmente le obbliga a indossare le gonne. Nel corso dell’Ottocento molte donne francesi decidono quindi di indossare i pantaloni per contravvenire a questa legge che limitava la propria libertà personale. Si tratta soprattutto di donne riconosciute, famose, che potevano aiutare l’opinione pubblica a modificare l’atteggiamento ostile verso l’autodeterminazione femminile.
Per esempio, Rosa Bonheur (1822-1899) pittrice francese specializzata nelle rappresentazioni di animali, prima donna francese a ricevere la Legione d’onore (1865) e a essere nominata Ufficiale della Legion d’onore (1894). Nonostante i titoli conseguiti Rosa è costretta ogni sei mesi a fare un’esplicita richiesta alla prefettura per poter indossare i pantaloni che le servono per visitare macelli e fattorie per studiare gli animali dal vivo, visto che le scuole d’arte statali sono precluse alle donne.
Anche la scrittrice e drammaturga francese Amantine Aurore Lucile Dupin (1804-1876) più conosciuta attraverso lo pseudonimo George Sand – nome maschile quindi potenzialmente meno soggetto a discriminazioni – infrangeva le regole, vestendosi da uomo, indossando pantaloni, stivali, cravatta e cappello a cilindro. E nei propri libri denuncia le condizioni di vita delle donne francesi, soprattutto di quelle sposate.
Nelle proprie uscite pubbliche anche Madeleine Pelletier (1874-1939), una delle prime psichiatre francesi, indossava i pantaloni per protesta. Sindacalista e femminista nelle proprie conferenze parlava di controllo della natalità, di interruzione di gravidanza e del diritto di voto per le donne. Arrestata con l’accusa di aver aiutato una ragazza minorenne ad abortire, venne successivamente rinchiusa in uno degli ospedali psichiatrici dove aveva lavorato da giovane, morendo pochi mesi dopo a causa di un repentino deperimento fisico e mentale.
La riforma dell’abbigliamento non è limitata al contesto francese, ma si diffonde in tutta Europa e negli Stati Uniti dando vita al Victorian dress reform. Le attiviste vedono nella riforma dell’abbigliamento una riforma di liberazione femminile non solo dalle regole di un abbigliamento repressivo, ma dalla mentalità patriarcale. Il movimento di riforma dell’abbigliamento si intrecciava con il femminismo della prima ondata, ossia quel movimento a livello internazionale che lottava per il suffragio universale femminile e l’ottenimento dei diritti sociali ed economici per le donne. Le esponenti del movimento femminista credevano che un cambiamento nelle mode potesse cambiare l’intera posizione delle donne nella società, consentendo una maggiore mobilità, indipendenza dagli uomini e dal matrimonio, capacità di lavorare per salari, movimento fisico e comfort. Nello stesso tempo denunciavano i rischi per la salute dovuti a un abbigliamento che costringeva il corpo femminile, danneggiava gli organi interni, comprometteva la fertilità, e in generale portava debolezza, debilitazione e deperimento fisico.
Mary Walker (1832-1919) attivista per i diritti delle donne, antischiavista, spia e infermiera statunitense durante la guerra civile americana, vestiva sempre come un uomo, seguendo i consigli dei propri genitori. Sul giornale femminile “The Sibyl: A Review of the Tastes, Errors, and Fashions of Society” pubblicò diversi contributi sulla propria campagna contro la moda femminile dell’epoca, per i suoi danni alla salute, le ingenti spese richieste e il concorso alla dissoluzione dei matrimoni. Nel 1871 scrisse: “I più grandi dolori quotidiani di cui soffrono le donne sono fisici, morali e mentali, causati dal loro modo poco igienico di vestire.” Si oppose fermamente alle gonne lunghe da donna con numerose sottovesti, che raccoglievano e diffondevano polvere e sporcizia oltre a produrre disagio e difficoltà di movimento in chi le indossava. Il tipico completo di Mary comprendeva pantaloni con bretelle sotto un vestito al ginocchio con una vita stretta e una gonna ampia.
Per l’opinione pubblica il decoro femminile è stato tanto fondamentale da oscurare anche le maggiori imprese sportive femminili. Esemplare è la storia di Annie Smith Peck (1850-1935) alpinista statunitense che durante un soggiorno di studio in Europa scopre il piacere delle scalate in montagna. Annie aderisce al movimento suffragista tanto che nelle proprie scalate porta sempre un drappo a sostegno del voto alle donne. È una donna moderna e pratica che sceglie i pantaloni per scalare, e lo fa anche nel 1895 quando scala il Monte Cervino. Annie è la terza donna a compiere l’impresa, ma ciò che attira la stampa è il suo abbigliamento: osa vestirsi come un uomo (una tunica lunga ai fianchi, ampi pantaloni, calzettoni di lana, stivali di cuoio e un cappello di feltro). Il clamore dell’impresa sportiva viene annullato da quello per l’abbigliamento. Una donna non può scalare in pantaloni! E sul New York Times parte l’ennesimo dibattito su cosa le donne possano fare e cosa possano aspirare a diventare. Eppure per le donne indossare i pantaloni era – in molti casi – una questione di praticità. Così nascono i bloomer. Dopo numerose ore passate in giardino Elizabeth Smith Miller decise di sostituire lo scomodo ampio abito con un pantaloni di turchi coperti da una gonna morbida lunga appena sotto il ginocchio.
Poco tempo dopo, i pantaloni rivoluzionari finirono in un articolo di “The Lily”, la rivista per sole donne fondata dall’attivista ed editrice femminista Amelia Bloomer, amica di Elizabeth. Il modello di pantaloni fu chiamato Bloomer in onore di Amelia e si diffuse tra le suffragiste statunitensi.
Ancora più incredibile la storia dell’educatrice statunitense Helen Hulick (1908-1989) che il 9 novembre 1938 viene convocata dal tribunale di Los Angeles come testimone di un furto con scasso, avvenuto proprio nella propria abitazione. Helen si presenta davanti alla Corte indossando un paio di pantaloni e da vittima di furto si trasforma in accusata. Il giudice Arthur S. Guerin decide di sospendere l’udienza intimandole di presentarsi con un abbigliamento più appropriato per una donna. Al rifiuto, il giudice condanna Helen Hulick a cinque giorni di prigione. In appello l’avvocato ottiene il rilascio immediato della donna e una sentenza della Corte che sancisce il diritto delle donne a indossare i pantaloni anche in tribunale.
Quindi, per rispondere alla domanda iniziale, sì, vestire è un atto politico, e a indossare i pantaloni per le donne è stata una vera e propria conquista e una tappa fondamentale nel percorso di emancipazione.